In un precedente articolo ho tentato di chiarire alcuni aspetti sulla complessità legata alla pratica manageriale. Soprattutto, tentavo di mettere in luce il fatto che non esistano ricette facili all’uso e che, spesse volte, la narrativa che si produce su imprese e manager faccia leva sul successo finale, anziché sul come si sia giunti al successo.
A questa narrativa non sfuggono la FIAT e Marchionne, prematuramente scomparso il 25 luglio 2018, all’età di 66 anni.
I manuali di management ed i tabloid sono zeppi di storie sull’impresa di Torino più conosciuta al mondo e sull’uomo che da 15 anni ne guidava le sorti. E molti colleghi si sono concentrati sui motivi per i quali Marchionne abbia avuto successo rispetto ai suoi predecessori. Soprattutto, sono state sottolineate le differenze tra il modus operandi a la Romiti – fortemente focalizzati su una visione finanziaria – a quelli del manager abruzzese – con un orientamento all’innovazione, al design e, dunque, ai mercati.
A ben vedere, se ci basassimo su queste differenze per decretare il successo o l’insuccesso di un approccio manageriale, basterebbe riproporre nelle nostre aule universitarie l’attenzione ad un generico ‘orientamento’ al marketing, anziché alla produzione o alla finanza. Ma tale approccio è proprio ciò di cui gli studenti non hanno bisogno. Il successo di Marchionne non può essere liquidato con un semplicistico cliché. Dietro al successo della FIAT moderna c’è molto più che un banale ‘orientamento’. E mentre la Famiglia Agnelli, attraverso un’accalorata lettera di John Elkann, mostrava una vicinanza ai famigliari di Sergio Marchionne, i ‘mercati’ facevano perdere a FIAT il 15%, in poche ore di contrattazione di borsa.
Il successo di Marchionne va ricercato, dunque, in altri elementi. Sono convinto che l’economia manageriale debba sempre più centrare il focus delle sue argomentazioni su aspetti legati alla cognizione, alle emozioni e alla capacità dei decisori di controllarle, indirizzarle e, perché no, manipolarle, a seconda degli scopi.
In questo lavoro proverò a spiegarne i motivi, chiarendo soprattutto le zone d’ombra con le quali, non solo gli uomini d’impresa ma anche noi accademici, dovremmo confrontarci.
L’agire manageriale, in quanto pratica sociale, sconta, innanzitutto, una irriducibile incertezza relativa ai risultati che si possono conseguire a valle di determinate decisioni assunte. Tale incertezza si traduce in rischio, quale percezione soggettiva delle possibili perdite, ovvero dei potenziali mancati o minori guadagni conseguenti alle decisioni stesse.
In secondo luogo, discutere di agire manageriale in maniera generica non aiuta affatto a comprenderne i punti critici. Su questo aspetto, molti manuali di management hanno tentato di far chiarezza distinguendo e separando il governo dalla gestione, ossia la parte strategica da quella operativa. Per quel che ho potuto maturare, la distinzione tra governo-strategia e gestione-operatività non regge ai fini della comprensione della complessità del lavoro di un manager o di un uomo d’impresa, in generale. Sotto un profilo della complessità decisionale, determinare la quantità di risorse finanziarie da allocare per un progetto di sviluppo – tipicamente attività strategica – e definire il planning per il godimento delle ferie dei dipendenti – palesemente un’attività operativa – rappresentano due esempi che opportunamente analizzati potrebbero avere molti più punti di contatto che differenze sostanziali. Questa posizione non intende misurare l’impatto che hanno le due decisioni sulla produzione di valore economico. Infatti, appare lapalissiano il fatto che l’impatto sul valore complessivo generato dalla prima tipologia di decisione (l’allocazione di risorse finanziarie su progetti complessi) sia incomparabilmente superiore al valore generato dal godimento ferie.
Quello che voglio dimostrare è che il numero di elementi da governare – buona proxy di una complessità decisionale – non si discosta a seconda della natura delle due decisioni. E, per poter dimostrare tale ipotesi, mi muoverò lungo due direttrici:
- il focus dell’attività manageriale;
- il trade-off tra regola ed eccezione nei processi decisionali.
Rispetto al primo punto, riprendiamo i due esempi proposti in precedenza:
- il manager A è chiamato a decidere quante risorse destinare per un progetto di sviluppo, ad esempio, per l’apertura di una nuova linea produttiva;
- il manager B è impegnato nell’organizzare le ferie dei propri dipendenti.
Le domande che potrebbero essere poste per evidenziare la complessità delle due decisioni possono essere varie ma, per quel che serve in questo contesto, ne propongo due:
- quale delle due attività (A-B) è maggiormente dispendiosa di risorse e, di conseguenza, più rischiosa?
- quale dei due manager (A-B) incontrerà maggiori intoppi nel portare a compimento il proprio task?
Se utilizzassimo il principio della coerenza tra rischio-rendimento, universalmente accettato nell’ambito delle scienze manageriali, alle due domande dovremmo rispondere A-A oppure B-B. Infatti, le potenziali risposte A-B e B-A sarebbero incoerenti rispetto al principio del rischio-rendimento, perché varrebbe dichiarare che chi rischia di più ha il beneficio di avere meno intoppi.
Per risolvere tale apparente paradosso è necessario focalizzare l’attenzione sull’oggetto della decisione, distinguendo tra:
- decisioni riguardanti l’approntamento di procedure/processi/attività;
- decisioni aventi ad oggetto le interazioni umane.
Ogni attività umana, e non solo quelle di natura economico-manageriale, può essere ricondotta ad una delle due categorie (D1 e D2). Compilare i moduli per l’iscrizione all’università, riempire il modello della dichiarazione dei redditi, ma anche approntare una consulenza ICT per installare una LAN aziendale, accedere a documenti prodotti dalla Pubblica Amministrazione, costruire un dashboard direzionale, decidere tra due progetti di investimento in relazione alla loro redditività intrinseca, rappresentano esempi nei quali le competenze da dimostrare sono completamente appiattite sull’obiettivo finale, che è misurabile, non ambiguo ed ammette un contraddittorio su basi obiettive.
I contesti nei quali avvengono le decisioni D1 possono essere definiti “ad elevata validità”, proprio per esprimere il concetto che le decisioni in esso assunte da un consulente o da un manager o, in generale, da un professionista, godono di fiducia fino a prova contraria. Per l’appunto, come accennavo, la prova contraria rappresenta la base obiettiva per avviare un eventuale contraddittorio, come ad esempio: il protocollo di sicurezza adottato per la protezione dei dati della LAN aziendale non è adeguato rispetto all’importanza dei dati da proteggere; il dominio semantico nella campagna SEM ha tenuto fuori keywords con un Cost-per-Click utile all’analisi; i flussi di cassa generati per l’Internal Rate of Return (IRR) nella valutazione dei progetti di investimento non contemplano i disinvestimenti di alcune linee produttive esistenti, e così via.
Così, anche le controdeduzioni portate all’attenzione del decisore nei contesti di tipo D1 presentano i caratteri della misurabilità, della non ambiguità ed ammettono ulteriore contraddittorio su basi obiettive.
Viceversa, i contesti decisionali di tipo D2 sono definiti “a bassa validità” in quanto sono soggetti a numerosi bias di valutazione. Lavorare sugli individui vuol dire confrontarsi nel quotidiano con le loro aspettative, speranze, obiettivi, umori, emozioni ma anche dissimulazione, atteggiamenti ostili, cinismo e rancore competitivo. La bassa validità di tali contesti è dovuta all’elevata indeterminatezza sottostante la misurazione delle performance del decisore, l’ambiguità negli atteggiamenti e comportamenti degli attori coinvolti ed il contraddittorio che ne deriva è il più delle volte caratterizzato da un esasperato giustificazionismo avente lo scopo di rinviare in capo ad altri individui i motivi del fallimento delle proprie decisioni assunte.
Come a dire: in assenza di uomini le imprese sarebbero algoritmi perfetti.
Torniamo ora ai due esempi. A questo punto, appare chiaro che, a seconda dei contesti nei quali si muovono i due decisori, le conseguenze delle decisioni in termini di rischio-opportunità risultano fortemente differenziate.
Un consulente finanziario chiamato ad applicare l’IRR per decidere quale progetto finanziare affronterà problematiche ben diverse da un consulente finanziario che dovrà giustificare uno dei due progetti maggiormente ‘apprezzato’ dalla proprietà o da altro portatore di interessi. Così come, il responsabile delle risorse umane che dovrà decidere il calendario delle ferie attraverso l’applicazione di criteri oggettivi incorrerà in minori intoppi rispetto ad un manager che dovrà soppesare aspettative particolari o condizionamenti di altra natura, soprattutto di carattere affettivo.
I contesti di tipo D2 pongono, pertanto, problematiche difficili da affrontare e inducono spesse volte il decisore ad assumere comportamenti che prevedono:
- decisioni avverse al rischio;
- eccessiva burocrazia;
- focalizzazione su aspetti secondari;
- fuga dalle responsabilità;
- azzardo morale.
Rileggendo Marchionne attraverso tali lenti, Egli ha saputo dimostrare, sia alla Proprietà FIAT ma anche alla grande pletora dei suoi interlocutori, di poter governare contesti di tipo D2, assumendo rischi qualificati, fluidificando i processi decisionali di vertice, focalizzandosi sul core business del settore automotive evitando di ricorrere a policy basate sull’azzardo morale (come lo possono essere le politiche assistenziali alle quali la sua stessa Azienda ha fatto ricorso in anni precedenti). La sua capacità di strutturare interazioni chiare, sia sul piano personale ma anche – ed è quello che conta nel sistema capitalistico – nel contesto dei rapporti industriali, è ciò che ha contraddistinto l’uomo che ha destrutturato i cliché attraverso l’uso dei pullover.
A tal proposito, scrive John Elkann nella sua lettera alla famiglia di Marchionne:
“Quello che mi ha colpito di Sergio fin dall’inizio, quando ci incontrammo per parlare della possibilità che venisse a lavorare per il Gruppo, più ancora delle sue capacità manageriali e di una intelligenza fuori dal comune, furono le sue qualità umane, la sua generosità e il suo modo di capire le persone”.
Al di là delle qualità umane e della generosità – doti che vanno sempre valutate in base alle persone con le quali ci si rapporta – quello di ‘capire’ le (intenzioni delle) persone è un must che ritengo vada tenuto in debita considerazione.
Dunque, la pratica manageriale induce gli uomini sia nel muoversi su contesti a bassa o ad elevata validità e li costringe a comprendere la natura umana. Si può comprendere la pratica manageriale anche attraverso una seconda direttrice, che qui definisco del trade-off tra regola ed eccezione.
Nel tentativo di esplicitare il concetto, proviamo a porci una semplice domanda: quante conoscenze e competenze servano per produrre un film o una serie televisiva che sia tratti, per l’appunto, d’affari?
Wall Street; Too Big to Fail; The Wolf of Wall Street; Capitalism: a Love Story; Inside Job; The Big Shot; Thank You for Smoking (tra i film) e Billions, Suits ma anche House of Cards e, volendoci spingere un po’ oltre, Game of Thrones (tra le serie televisive), rappresentano alcuni dei validi esempi dai quali trarre ispirazione per poter ricavare utili informazioni su schemi e modelli che caratterizzano il sistema capitalistico.
Proviamo ad immaginare, infatti, quante professionalità occorrano per abbozzare un copione e scrivere una sceneggiatura. Ad esempio, se io fossi il produttore chiederei che la squadra minima fosse composta da un accademico, da un manager, da uno psicologo, da un sociologo, da un semiologo, da un filosofo delle scienze, da uno storico dell’economia, da un esperto di comunicazione (fosse solo per semplificare e rendere fruibile il vocabolario tecnico ad un pubblico più ampio, al fine di rendere il ‘messaggio’ del filmato ‘fruibile’).
Il motivo di una così ampia disponibilità di competenza va ricercato, ancora una volta, nella possibilità di governare la complessità delle dinamiche che interessano l’agire umano. Tale complessità assume ancora più rilevanza quando le dinamiche riguardano gli affari. Fosse solo perché, negli affari gli errori commessi conducono a perdite misurabili che hanno conseguenze più facilmente riconducibili alla fonte dell’errore.
Produrre una sceneggiatura di un film presenta, pertanto, la stessa complessità che dovrebbe saper affrontare un consulente o un manager d’impresa. Un buon sceneggiatore e un buon manager devono possedere le competenze per tradurre la complessità delle dinamiche sociali in frame che comprendono:
- le aspettative, gli interessi, gli obiettivi di singoli attori/agenti;
- la natura delle interazioni, le quali possono essere sinergiche, simbiotiche o antagonistiche;
- l’approccio di ogni singolo attore/agente di fronte a sfide difficili, a dilemmi morali, a vincoli/regole;
- l’avversione al rischio o la propensione all’azzardo di ogni singolo individuo;
- le modalità con le quali vengono ricercate ed utilizzate le informazioni;
- le risorse disponibili e quelle che possono essere recuperate per perseguire gli obiettivi;
- in generale, tutti gli elementi che influenzano il processo decisionale in capo all’attore/agente.
Restando nel solco della metafora cinematografica, è evidente che non tutti gli attori passano alla ribalta catturando l’attenzione. Così come risulta difficile che una comparsa (che pur dimostra di saper recitare) si imprima nella memoria, è altrettanto difficile che un buon controller (che pure sa operare efficacemente) possa suscitare il nostro interesse nel mondo degli affari. Per catturare l’attenzione servono gli ingredienti di quella complessità precedentemente snocciolata, che rendono incerte le relazioni causa-effetto e per le quali serve una squadra così ampia di professionalità.
Proviamo con un esempio pescato dall’elenco dei film di cui sopra a chiarire il concetto. Nel film The Big Shot (La grande scommessa), prodotto da Brad Pitt con la regia di Adam McKay (2016), Christian Bale interpreta Michael Burry, un eccentrico trader che non si limita ad investono quotidianamente nei mercati finanziari formulando ‘analisi tecniche’ e valutando la collocazione dei capitali di lavoratori e pensionati in ragione della loro propensione al rischio. Michael Burry non appartiene alla categoria del trader ‘normale’: mentre tutti gli operatori di mercato viaggiavano verso quella che sarà definita la crisi finanziaria ed economica più grave, anche maggiore di quella del 1929, Michael Burry ‘scommette contro il sistema delle regole’ perché aveva visto qualcosa di cui gli altri colleghi non avevano neppure avvertito il sentore. Così, mentre tutti scommettono sulla crescita, mediante i Credit Default Swaps (CDS), egli scommette sul fallimento dei mercati.
Ciò che ha reso la vita di Michael Burry meritevole di essere raccontata, a dispetto di tante altre vite, è l’essere stato capace di sottrarsi alla marcatura di una delle più tenaci regole di vita:
“the trend is your friend”.
Tale regola può essere così tradotta: quando non hai sufficienti informazioni o mezzi, l’unico modo che hai di sopravvivere è quello di metterti in scia, facendo ciò che fanno tutti gli altri.
Come visto nel precedente articolo, questa è la regola maggiormente adottata da consulenti e manager d’impresa, così come da coloro che devono scegliere la destinazione turistica per l’estate o il ristorante nel quale portare la persona amata.
Anche la pratica manageriale è condizionata da questo trade-off tra regole ed eccezioni. Ed i pochi personaggi che meritano di essere narrati, rispetto alla stragrande maggioranza che restano nell’ombra, sono proprio quelli che hanno dimostrato di saper sfuggire alle regole e alle ricette preconfezionate.
La domanda che pongo ora è, però, un’altra: quanto paga seguire o rifiutare di seguire le regole?
“Seguire le regole” o “uscire dalle regole” non è una scelta che si presenta di rado. Ciò che fa protendere un decisore nell’optare per la prima soluzione è la sua assoluta avversione al rischio di fallimento. Per poter decidere di non seguire il flusso è necessario che possa configurarsi una qualche compensazione del rischio che sia sufficientemente grande. Nella Prospect Theory, Amos e Kahneman misurano che la propensione all’azzardo si attiva più facilmente in situazioni di potenziali perdite, mentre in situazioni di potenziali guadagni, la propensione al rischio è compensata solo se vi è un rapporto 1:2 tra perdite e guadagni.
In tale prospettiva, le scelte di Michael Burry appaiono ‘razionali’: seguire una bolla speculativa ti consente di guadagnare (anche bene) nel breve periodo; scommettere sullo scoppio della bolla speculativa si fonda sull’aspettativa di guadagnare almeno il doppio nel medio periodo.
Sulla base delle argomentazioni portate all’attenzione del lettore, appare evidente che personaggi come Michael Burry o come il connazionale Sergio Marchionne siano passati alle cronache per aver saputo applicare competenze peculiari in contesti ad elevata ambiguità causale (D2) e per aver sublimato comportamenti al di fuori del mainstream. Fosse solo per il rifiuto di Marchionne di seguire il conventional suits, costringendo tutti a porci una banale domanda: perché si ostina ad indossare pullover anziché il tradizionale abito.
Anche in questo senso, John Elkann sottolinea il punto:
“Per tanti Sergio è stato un leader illuminato, un punto di riferimento ineguagliabile.
Per me è stato una persona con cui confrontarsi e di cui fidarsi, un mentore e soprattutto un amico.
Ci ha insegnato a pensare diversamente e ad avere il coraggio di cambiare, spesso anche in modo non convenzionale, agendo sempre con senso di responsabilità per le aziende e per le persone che ci lavorano”.
In chiusura, di una cosa sono certo: senza abusare di una certa retorica tesa a difendere una qualche tesi sul raggio del suo ‘senso di responsabilità’, Marchionne sapeva cosa fosse l’Uomo. Egli conosceva la portata delle sovrastrutture che condizionano la stragrande maggioranza delle persone. Per come vedeva se stesso nel mondo, avrebbe potuto vestire come meglio Gli aggradava. L’aver saputo ‘distrarre’ la FIAT dal comodo divano di casa-Italia, l’aver dimostrato di possedere le capacità di negoziare in ambienti alquanto più ostili, restituisce il senso che Sergio Marchionne del biasimo sociale non sapeva che farsene. Perché la verità è che, se vuoi che la tua vita valga la pena di essere raccontata doveva sfuggire alle regole alle quali i suoi predecessori avevano dato credito e che la possibilità di produrre valore per gli azionisti di un’impresa come la FIAT passava per il mettersi in gioco nello scenario capitalistico globale, abbandonando la mano di mamma-Italia. Il resto bisogna lasciarlo ai commentatori di social network.
Claudio Nigro
PhD & Full Professor of Management
University of Foggia – Italy