La consulenza manageriale tra teorie ed illusioni. Un confronto con Ghoshal, Kahneman, Rosenzweig, Page&Brin e Collins&Porras.
Quello del consulente non è un lavoro semplice. Prescindendo dalla complessità dell’intervento richiesto, dal contesto aziendale e dalle problematiche specifiche da affrontare, molto spesso tale lavoro si traduce nel creare e trasferire ai propri interlocutori una risorsa particolarmente scarsa: un chiaro messaggio di sicurezza sulla validità della strategia proposta per raggiungere risultati positivi misurabili e portare l’impresa a vincere la competizione con altre aziende.
Quali sono gli skills richiesti ad un consulente per perseguire tali finalità? Innanzitutto il suo background culturale e le esperienze dovrebbero aiutarlo a destrutturare e interpretare il contesto in cui si trova ad operare affinché appaia ordinato, semplice, prevedibile e coerente, per se stesso ma soprattutto ai suoi committenti.
La coerenza può essere descritta come la distanza percepita da un individuo tra ciò che la sua mente ritiene valido e ciò che si osserva nel concreto. Grazie a diversi studi nell’ambito delle scienze sociali sono state osservate diversi ‘modus cogitandi’, ossia processi mentali, che indirizzano e spesse volte illudono gli attori sociali nello sperimentare stati di coerenza. Le persone, infatti, tendono a sperimentare la sensazione di coerenza in ragione della facilità con la quale esse recuperano informazioni dalla memoria; e tale facilità è in gran parte determinata dalla consistenza di informazioni, teorie, schemi e modelli che i media, le università, le istituzioni in generale producono.
In tale scia, tra i ‘produttori di coerenza’, gli studi di economia manageriale appaiono progettati per soddisfare i bisogni di sicurezza delle imprese, mentre basterebbe dare una scorsa al bellissimo libro di Nassim Nicholas Taleb (2007, The Black Swan. The Impact of the Highly Improbable, Random House, NY), per avere percezione dell’imponderabile nelle vicende umane.
Nelle aule universitarie, in linea con il modello educativo gli Harvard, tradizionalmente vengono trattate ‘buone pratiche’, casi di successo ed insuccesso, modelli matematico-statistici per la valutazione dei comportamenti umani. Già Sumantra Ghoshal (2005, “Bad Management Theories Are Destroying Good Management Practices”, Academy of Management – Learning & Education, n.1) aveva messo in guardia accademici e practitioners rispetto all’abuso di tali approcci.

Si supporti o meno la visione di Ghoshal, se, come l’eroe del classico cinematografico Matrix di fronte alla scelta tra ‘la pillola blu e la rossa’ si decida per la seconda, e quindi per andare a vedere le carte fino in fondo, è utile riflettere sulle radici della potenziale fallacità di un consulente o manager d’impresa.
Partiamo con una considerazione di metodo, ponendo una semplice domanda (tratto da Daniel Kahneman, 2012, Pensieri lenti e veloci, Mondadori, p. 274):
supponi di dover prendere in considerazione varie coppie di aziende. Le due aziende di ciascuna coppia sono generalmente simili, ma il CEO di una è migliore del CEO dell’altra. Quanto spesso scoprirai che l’azienda con il CEO più forte è quella di maggior successo delle due?

Non è difficile immaginare che ciascuno di noi tenda intuitivamente ad attribuire un’elevata probabilità al nesso causale tra la bravura di un consulente o di un CEO e le performance dell’impresa. Eppure le cose non stanno esattamente in questo modo. Se lasciassimo al caso o alla fortuna la possibilità di decretare il successo o l’insuccesso di un’impresa, scopriremo che nel 50% dei casi l’azienda di maggior successo è guidata dal CEO più debole, e viceversa. Studi scientifici hanno dimostrato che il nesso causale tra bravura e successo imprenditoriale varia da un 20% ad un 40%, ben lontani da una correlazione perfetta nel 100%. Introdurre il concetto di bravura, in contrapposizione alla fortuna o al caso, vuol dire tenere in conto questo coefficiente di correlazione. Se utilizzassimo un coefficiente di correlazione del 30% tra la bravura di un consulente (o di un CEO) ed il successo dell’impresa, i capitani più bravi rappresenterebbero circa il 60% del campione, con uno scarto di un solo 10% rispetto alla percentuale dettata del caso o dalla fortuna.

Un così misero risultato è ben spiegato da Philip Rosenzweig (2007, The Halo Effect: and the Eight Other Business Delusions That Deceive Managers, Free Press), il quale dimostra che il mito della consulenza e della bravura del management è alimentato dal due spinte:
- Dalla narrativa di storie di successo ed insuccesso di particolari imprese ed uomini;
- Dalle analisi matematico-statistiche tese ad identificare le differenze tra imprese di successo ed insuccesso.
In sintesi, Rosenzweig conclude che la letteratura manageriale tende ad amplificare l’influenza dello stile di comando e delle pratiche manageriali sui risultati aziendali, attribuendo poca importanza a fattori contingenti difficilmente osservabili e, dunque, scarsamente descritti e per nulla riportati nei manuali di management.
Consideriamo due esempi che, fra tanti, supportano queste conclusioni.
Il primo esempio riguarda una delle imprese più note e di successo dei nostri giorni: Google.
Il 4 settembre del 1998, Larry Page e Sergey Brin, due semplici studenti dell’Università di Stanford, fondano un’azienda il cui core business era lo sfruttamento di un algoritmo per la ricerca di informazioni in rete.
Qual è la narrativa più utilizzata per descrivere il “caso Google”? Beh, è quella secondo la quale, negli anni immediatamente successivi alla sua fondazione, Page e Brin hanno preso decisioni vincenti, in un continuum di quasi invincibilità dei protagonisti. Eppure, Il 29 settembre 2011, Seth Weintraub pubblica un articolo su Fortune dal titolo “Excite Passed Up Buying Google for $750.000 in 1999”, nel quale l’autore mette in evidenza il fatto che, due anni prima, Larry Page e Sergey Brin fossero disposti a cedere la loro impresa ad un prezzo inferiore al milione di dollari e che il potenziale acquirente (la Excite) abbia formulato un giudizio negativo rispetto all’opzione di acquisto. Una sottovalutazione del proprio business, una grossa occasione mancata del potenziale acquirente, decisioni manageriali non proprio ‘infallibili’?
Il secondo esempio è riproposto da Jim Collins e Jerry I. Porras (2002, Built to Last: Successful Habits of Visionary Companies, Harpercollins Publishers). Gli autori analizzano 18 coppie di imprese concorrenti, tutte annoverabili tra casi di successo, confrontandole con altre imprese meno virtuose. Da questa analisi, Collins e Porras riescono ad isolare una serie di aspetti (corporate governance, strategia, processi operativi, cultura organizzativa, leadership ed altri) che a loro dire debbano costituire le fondamenta di qualsiasi impresa voglia avere successo.
E tuttavia, nel periodo successivo allo studio, la differenza in termini di redditività, di valore economico del capitale e dell’ andamento del valore delle azioni in borsa tra le imprese di successo e quelle meno virtuose si è ridotto a zero.
Le storie di successo toccano, dunque, il cuore di imprenditori, manager e studiosi, in quanto forniscono alla mente umana un semplice messaggio coerente, ignorando quasi del tutto il potere determinante gli elementi o di eventi fortuiti. Questo modo di procedere alimenta l’illusione che si possa prendere qualcosa di determinante per la buona conduzione delle imprese. Cosa resta quindi al consulente se non la necessità di applicare quelle soluzioni che ogni buon manuale di management propone come valide opzioni per il successo?
Anziché esplorare nuove vie, approfondendo le dinamiche cognitive e i processi decisionali degli esseri umani, consulenti e manager tendono ad adeguarsi in maniera pressoché pedissequa ad un ricettario preconfezionato. Sulla base di tali premesse, nessun consulente o amministratore di impresa correrebbe intenzionalmente il rischio di applicare soluzioni non in linea con la cultura dominante in campo manageriale.
Non sono le soluzioni standard a fare la differenza affinché rassicuranti promesse si traducano in un effettivo successo sul campo.
Infine, andando a concludere, parlare di ‘consulenza’ tour court è un po’ troppo generico. Pertanto, nel prossimo articolo per questo blog, tenterò di definire le peculiarità e le problematiche sottostanti a due macro-categorie consulenziali, che definirò come tecniche e sociali.
Le prime, o consulenze tecniche, per loro natura si fondano sull’applicazione di conoscenze e competenze analitiche e il cui dominio di applicazione riguarda procedure e processi formali. Si pensi, a tal proposito, alla consulenza ingegneristica, di web design, legale o amministrativa.
Le consulenze che definirò sociali, viceversa, hanno un campo di applicazione che investe l’individuo quale attore sociale, prima che economico, e che, pertanto, vanno ad insistere sulle aspettative, sulle intenzioni, sui processi decisionali e, in definitiva, sui comportamenti umani. Rientrano in tale categoria consulenze quali il couseling per il passaggio generazionale nelle imprese familiari, la riorganizzazione aziendale, la definizione di strategie di crescita e di sviluppo, la selezione del personale e tutti quegli interventi nei quali la negoziazione assume un ruolo fondamentale.
Mentre per le consulenze tecniche, l’aleatorietà nel risultato dipende essenzialmente dalla correttezza nell’adozione di determinate procedure, per le seconde, quelle sociali, lo iato tra aspettative e risultati è in linea con le osservazioni mostrate nel presente articolo.

Claudio Nigro
PhD & Full Professor of Management